Questioni sull'omosessualità

Nel blog Come Gesù ho trattato in tre articoli l’argomento omosessualità dal punto di vista dell’etica naturale. Li riporto in successione, così come sono usciti.

 

Etica ragionata


Questo mio scritto prende le mosse dalla seguente affermazione fatta in un articolo di questo blog alcuni giorni fa: “considerare peccaminosi e quindi proibiti gli atti omosessuali è contro la ragione e contro la giustizia”.

Poiché tale affermazione non mi sembra affatto evidente, chiestene le motivazioni, la risposta è stata: “l’amore è qualcosa di potentissimo che prende l’anima, il cuore e la mente; per una persona innamorata l’amore è la vita stessa; se uno è omosessuale, perché proibirgli ciò che è concesso a un eterosessuale, vale a dire unirsi alla persona amata?”.

Deduco quindi che l’irragionevolezza starebbe nel proibire ad una persona di amare e l’ingiustizia nel trattare diversamente due situazioni equivalenti.

Poiché questo modo di vedere le cose è abbastanza diffuso e spesso di fronte ad esso, pur dissociandosi, si ricorre quasi unicamente ad argomenti di fede, vorrei cercare di controbatterlo su un piano puramente razionale, anche se mi rendo conto che il discorso potrebbe diventare un po’ più pesante e difficile da seguire.

L’affermazione che sto criticando è conseguenza di un clima culturale soggettivista che in ambito morale porta a pensare che l’unico giudizio etico valido possa essere portato solo sui propri sentimenti; detto in parole semplici: “è buono ciò che amo ed è cattivo ciò che odio” o anche “faccio il bene se ho sentimenti di amore e di benevolenza e faccio il male se ho sentimenti cattivi”. Una conseguenza di questa impostazione è che le norme morali che non trovassero corrispondenza con i propri sentimenti sono viste solo come imposizioni esterne coercitive e un altro aspetto che complica la questione è che spesso lo stesso termine “amore” viene usato per indicare cose molto diverse tra loro.

Anche una morale sviluppata con la sola ragione può comprendere che il giudizio etico non viene dato solo sui  sentimenti del soggetto agente, ma sull’azione completa, che comprende oggetto, fine, mezzi e conseguenze. Tale giudizio porta quindi il soggetto a valutare se tutta l’azione è adeguata al bene di coloro che ne sono coinvolti. In ogni atto che la coscienza giudica cattivo, inizialmente può essere presentato alla volontà un bene parziale, che per quanto ha di buono risulta amabile o desiderabile, ma che poi la ragione stessa riconosce inadeguato al bene complessivo di tutti i soggetti coinvolti. Questo giudizio della ragione, se dato dopo l’atto, può portare al pentimento; se dato prima dell’atto, può portare ad evitare di compiere l’azione. Dire che un atto di unione omosessuale è cattivo significa riconoscere, attraverso la ragione, che, per quanto possa presentare aspetti desiderabili o di piacere, non è adeguato al bene generale delle persone coinvolte. Ho parlato di un atto concreto e non di un amore in generale che può portare a compiere tanti atti diversi e buoni, se adeguati al bene delle persone. Del resto anche diversi atti compiuti in una relazione di amore eterosessuale possono essere giudicati cattivi perché inadeguati al bene delle persone.

Riguardo alla giustizia, se si comprende che il giudizio etico non è dato sui sentimenti, ma sulle azioni nel loro complesso, allora non si può più dire che i due casi siano equivalenti.

Queste riflessioni sono molto sintetiche e parziali, inoltre è ancora da dimostrare che gli atti omosessuali sono cattivi; per ora mi sono limitato a ragionare sul fatto che non è irragionevole considerarli cattivi.

 

 

Natura e contro-natura


Le osservazioni critiche che ha rivolto don Mauro al mio articolo precedente, mi offrono l’occasione per approfondire un argomento che non avrei potuto trattare in poche righe di risposta immediata. Sono grato a lui e a tutti coloro che, nel criticare, lo fanno con il desiderio di migliorare la comprensione di una questione dibattuta.  Mi scuso per la lunghezza di questo articolo, un po’ superiore all’abituale.

La ragione, applicata in ambito scientifico-tecnologico, ai nostri giorni riscuote evidenti successi; spesso però ci si ferma a considerarne la validità solo per una visione ristretta del cosiddetto metodo sperimentale, mentre la ragionevolezza dell’attività scientifica comprende anche i caratteri di universalità, di condivisione, di collaborazione, di partecipazione a progetti comuni, ecc …

Anche la cultura umanistica contemporanea ha bisogno di riscoprire le capacità della ragione.  La filosofia moderna è diventata la nuova Babele, regno del relativismo e dello scetticismo, dove ogni filosofo parla la sua lingua, talvolta fa sfoggio di erudizione, si accontenta di avere un suo pubblico compiacente, ricerca l’originalità per avere momenti di fama, considera la sua attività non come avventura fatta con altri, ma come competizione agonistica nella quale se vinco io, perdi tu.

Credo che, anche a partire dal basso, in un ambito poco più che familiare, si debba recuperare il gusto per l’uso corretto della ragione per poter realizzare un confronto costruttivo: bisogna avere la pazienza di tornare a parlarsi e avere fiducia che, se c’è autentico desiderio di verità, si può arrivare ad intendersi. Tra l’altro questo era uno degli incoraggiamenti indicati alla nostra cultura da San Giovanni Paolo II nell’enciclica “Fides et Ratio”.

Passando dalla cerchia familiare all’ambito pubblico, un ruolo fondamentale è svolto dai mezzi di comunicazione. E’ vero che molti di questi, per sopravvivere, hanno bisogno di adeguarsi alle logiche del mercato e per questo richiedono che i loro prodotti siano attraenti: talvolta certe forme di ragionamento, anche se corrette, mancano di attrattiva e di facile comprensibilità. Però ci sono anche argomenti difficili che richiedono pazienza ed applicazione, mentre il mercato spesso vuole spettacolo immediato e superficialità, quando non ricerchi proprio la spettacolarità di una dialettica volgare e inconcludente. Riguardo poi al problema della manipolazione dei mezzi di comunicazione, mi basta ricordare di non essere ingenui nel pensare che non ci siano mai.

Fatte queste premesse, mi propongo di dare qualche precisazione su uno dei concetti filosofici che negli ultimi decenni è stato oggetto di molti malintesi, quello di “natura”; malintesi che hanno riguardato sia il significato di diritto (o morale) naturale, sia il significato di peccato contro-natura.

Il problema comincia già per il fatto che il termine “natura” ed il suo aggettivo “naturale” hanno moltissimi significati, che, cambiando di contesto, possono anche diventare opposti. Ne elenco alcuni:

Natura: nascita, principio generante, principio intrinseco di attività, soggetto di mutamento, essenza,  inclinazione spontanea, stato pre-sociale, mondo sensibile, carattere individuale dell’essere, temperamento, ecc …;
naturale: appartenente alla natura, originario, istintivo, senza artificio, ingenuo senza doppiezza, che imita la natura, che succede comunemente, che si produce con le sole forze della natura, ecc …

Il senso in cui il termine “natura” è utilizzato in filosofia e teologia, quando si parla di morale naturale, è il senso metafisico:  “l’essenza stessa di un ente considerata in quanto principio delle sue operazioni specifiche”. Non comprende tutto ciò che di fatto può succedere a un individuo (ad esempio: in senso metafisico, per l’uomo non è naturale essere cieco, o malato, o sadico, o depresso, anche se evidentemente, con un senso diverso, uno potrebbe dire che queste cose sono naturali, perché possono succedere). Ugualmente la natura (sempre in senso metafisico) non riguarda solo ciò che è sensibile, ma anche ciò che è spirituale, o divino (si parla di natura razionale e natura divina). Quello che, in senso metafisico, è naturale per un uomo è avere un corpo, un’intelligenza, delle potenze, delle passioni, delle capacità comuni a tutti gli uomini.

Per non annoiare ulteriormente, riporto qui sotto una insolita spiegazione della natura relazionale dell’uomo, fatta da un filosofo contemporaneo, con un linguaggio che non è propriamente da educande …

“Basta meditare sul nostro ventre, e anche sul nostro basso ventre, per scoprire la natura relazionale del nostro essere. Se abbasso lo sguardo e scorgo il centro del mio corpo, che cosa vedo? Il mio ombelico. Che cos’è il mio ombelico? E’ il segno che non mi sono fatto da me stesso, ma che vengo da altre persone, delle quali di regola porto il cognome. E se scendessi un po’ più in basso, che cosa scoprirei? Il mio sesso (prendo qui il termine in senso stretto, perché il sesso o almeno i caratteri sessuali non sono soltanto nelle mutande, sono diffusi in tutto il corpo, e in un modo che non è, a dire il vero, organico, perché si tratta dei lineamenti, dei profili: in genere più angolosi, meno dolci nell’uomo che nella donna). Ebbene che cos’è il mio sesso? E’ il segno che io non sono fatto per me stesso, ma che, nella mia carne, tendo, vado verso gli altri. E questo è talmente vero che invece di guardare il mio sesso, guardo le donne; e prima di notare il mio ombelico, ho visto il volto di mia madre, o di mio padre. Questo è talmente vero che queste due parti di me stesso sono meno mie che degli altri, di coloro da cui e per cui sono. Il mio ombelico è lo stigma cavo o bombato di un cordone che non ho più, e che riguarda più i miei genitori, la loro potenza generativa, che non la mia. In quanto al sesso, esso risponde meno alla regola della mia volontà che alle curve di un corpo femminile. Si tende verso di esso e, secondo la bizzarra incurvatura che prende se, nel desiderio, lo lascio in libertà, punta verso il cielo … In breve, il mio ombelico e il mio sesso mi sfuggono. E se uno mi distacca (da mia madre) perché l’altro mi attacchi (a mia moglie), entrambi mi mostrano che sono sempre in mezzo, preceduto da altri nella mia origine, superato da altri nella mia fine”.

Questo brano è tratto da un testo che è molto più ampio ed articolato, ma l’ho proposto, pur nell’incompletezza della spiegazione, perché penso che aiuti ugualmente a cogliere bene come la metafisica parte dall’osservazione, ma poi, attraverso la riflessione, si pone domande di senso, di causa, di fine che abbiano valore universale: non si limita ad una descrizione spettacolare di come funziona il nostro corpo.

Quando la prossima volta concluderemo queste sintetiche considerazioni sul perché gli atti omosessuali siano considerati contro-natura, riporterò anche il nome del filosofo, per chi non l’avesse già riconosciuto.

 

 

Atti contro-natura


Questo articolo è la prosecuzione di altri due articoli apparsi su questo blog: Il primo “Etica ragionata” ed il secondo “Natura e contro-natura”.

 

Nei due articoli precedenti avevamo già affermato:

  1. Che gli atti eterosessuali e gli atti omosessuali sono diversi;
  2. Che il termine “natura”, in morale, è inteso in senso metafisico, come “l’essenza stessa di un ente considerata in quanto principio delle sue operazioni specifiche”.

Una prima evidenza che penso non abbia bisogno di molte spiegazioni è quella di riconoscere che la congiunzione carnale tra persone di sesso opposto (quindi un maschio e una femmina) è l’atto che la nostra natura prevede per la procreazione.

“Non si può decostruire l’essenziale, ma solamente costruirgli accanto un simulacro […] L’essenza, in questo caso, corrisponde al dato di natura […]. Etimologicamente la natura viene pensata a partire dalla nascita, non dalla costruzione. In greco “natura” si dice “physis” e physis viene dal verbo phyein, che significa “apparire da una profondità nascosta” o, più semplicemente “manifestarsi”. Il naturale (o l’essenziale) è ciò che ritorna al galoppo quando lo si scaccia, è ciò che si manifesta nostro malgrado e talvolta contro di noi, quando abbiamo preteso di negarlo. […] Di fatto, ciò non si manifesta  per le strade, si manifesta in noi, nelle nostre mutande, ci piaccia o no; si manifesta pure in chiesa e in una serata LGBT, si manifesta attraverso la barba di un frate cappuccino, e attraverso le tette di una Femen. Perché non si manifestasse, bisognerebbe essere un angelo.” (Fabrice Hadjadj - Ma che cos’è una famiglia? - Ares - 2015)

Che la sessualità umana sia intrinsecamente orientata verso la procreazione è “il fatto” innegabile, punto di partenza per valutare la bontà di questi atti. Se all’esercizio della sessualità mancasse la finalità procreativa sarebbe come organizzare un banchetto con tutti gli ornamenti possibili sulla tavola e nella casa, magari anche la musica, ma senza servire alcun cibo: con invitati affamati sarebbe una grande beffa. L’edonismo attuale spinge molti ad essere come (procreativamente) anoressici, che si divertono a banchettare senza cibo o che lo vomitano dopo aver mangiato.

A partire dalla realtà biologica della procreazione inserita nella dignità di persona dell’uomo e della donna, si scopre come la loro unione richieda una donazione personale, libera, volontaria, rispettosa, paziente, stabile, sostenuta da emozioni, sentimenti, passioni, gesti e relazioni orientate al bene reciproco e dei figli (se ci sono): quello che si dice “l’amore coniugale”, che non è il solo innamoramento iniziale. Se la congiunzione carnale eterosessuale mancasse di qualcuna delle caratteristiche adeguate alla dignità delle persone, non sarebbe più moralmente buona. Potrei portare molti esempi per chiarire questo punto.

Se il fondamento fisico dell’amore coniugale è la differenza sessuale orientata alla procreazione, il processo inverso, di partire da un “innamoramento” per arrivare a giustificare congiunzioni carnali intrinsecamente non procreative, e quindi inadatte a diventare “amore coniugale”, costituisce un’illusione che ha ricadute psicologiche, antropologiche, familiari e sociali, non solo sui diretti interessati, ma su tutte le persone che hanno relazioni con loro.

Chiamare “amore” un atto omosessuale solo a partire da ciò che prova la persona, senza guardare al significato intrinseco e fisico del gesto, significa: o illudersi che il proprio desiderio possa magicamente cambiare una realtà che è diversa, oppure dare seguito ad una pulsione che si ritiene irrefrenabile, anche se si riconosce essere disordinata rispetto alla propria realtà biologica. A questo riguardo è importante soffermarsi a considerare l’ampiezza e la ricchezza delle potenzialità della nostra natura razionale e  sensibile: pensieri, desideri, ricordi, sentimenti, passioni, che spesso non riescono ad essere pienamente sottomessi alla volontà, ma che una personalità equilibrata dovrebbe desiderare di orientare, non al conseguimento di un proprio appagamento arbitrario, ma al ragionevole rispetto della realtà che si vuole amare. Quando si parla di orientamento o tendenza sessuale si vuole indicare un certo insieme di sentimenti o desideri che si provano spontaneamente verso persone dell’altro sesso o del proprio, ma questi moti, ancora involontari, non cambiano la natura della persona (intesa in senso metafisico); queste tendenze possono essere più o meno radicate e difficili da sottomettere alla volontà libera, ma questo problema si manifesta in molti ambiti della sensibilità (alcoolismo, droga, cibi, fumo, ecc …), e delle relazioni umane (antipatie, invidie, gelosie, ecc …),  non solo nella sessualità omo- o etero-.

(Riguardo alla citazione di Vito Mancuso fatta da Pierri). Avevo già spiegato che (ad esempio) essere cieco è “naturale”, nel senso che può succedere, ma “non naturale” da un punto di vista metafisico, perché non appartiene all’essenza dell’uomo. Penso che nessuno di noi direbbe a un cieco: “Non preoccuparti perché la tua cecità è una variante naturale della vista, e ora per farti compagnia anch’io mi cavo gli occhi”. E comunque, da sempre, per la morale, tutto ciò che è involontario è anche incolpevole; la responsabilità morale comincia con l’assenso volontario.

Talvolta, per giustificare la “naturalezza” degli atti omosessuali, si è ricorsi al fatto che questi si danno anche tra alcune specie animali. Ma, a parte il fatto che, in tal caso, si usa il termine “naturale” con un senso diverso da quello metafisico, si deve anche considerare che spesso, tra gli animali, tali gesti non hanno affatto un significato di “amore”, ma di sottomissione, di un maschio, al maschio dominante. In questo stesso senso (cioè perché succedono in natura) sarebbero “naturali” anche l’omicidio, il cannibalismo, la selezione dei piccoli, la lotta per il predomino, ecc …

La qualifica di “contro-natura” assegnata agli atti omosessuali riguarda la deviazione del fine proprio attribuito dalla nostra natura umana alla sessualità, che è intrinsecamente orientata alla procreazione (che è il “luogo” nel quale ogni uomo si “origina”, dove si trasmette la nostra “natura”). Esistono anche altri atti disordinati nell’ambito della procreazione (onanismo, contraccezione, ecc …), ma il loro disordine non è così radicale (ma non cambierebbe molto il fatto di attribuire o no questo nome). La qualifica di contro-natura comunque non riguarda tutti quei gesti di affetto, di amicizia, di comprensione, di sostegno e di aiuto reciproco che si possono dare tra due persone qualsiasi, anche dello stesso sesso.

In senso lato moltissimi disordini morali sono contrari alla morale naturale, e quindi in certo senso contro-natura, ma, come ho detto sopra, nel caso degli atti omosessuali c’è un motivo specifico. Ed è lo stesso motivo per il quale questo disordine non è un disordine qualsiasi, ma grave, poiché riguarda non solo l’ambito più intimo della persona, ma sconvolge anche l’ordine familiare e sociale. Per quali motivi la Chiesa ritiene che gli atti omosessuali siano un peccato grave? La nozione di peccato grave è una nozione religiosa, diversa da quella di disordine morale grave: ma quest’ultima questione riguarda il rapporto tra fede e ragione, e questo argomento non può essere liquidato in due battute.

 

P.S.: La citazione dal libro di Hadjadj, come quella dell’articolo precedente, è tolta da un contesto più ampio, il cui argomento è quello che dà il titolo al libro, ma i due testi citati sono utilizzati solo per supportare gli argomenti di questi articoli.